Venuta meno nel corso dei secoli la sua funzione difensiva, esso acquistò man mano l’aspetto di dimora residenziale. Fu infatti alla fine del XV secolo prima, ad opera del Cardinal Prospero Pubblicola Santacroce (1567-1586), e all’inizio del XVII secolo poi, ad opera del Cardinale Carlo Pio di Savoia (1655-1689) a subire le ristrutturazioni più considerevoli.Furono costruite la parte dell’edificio che guarda a tramontana con la torre centrale a pianta quadrata coronata da una merlatura, il ponte levatoio che dà accesso al portale ad arco a tutto sesto e all’ampio ed elegante cortile interno.Vennero sistemate ed affrescate le maestose sale, alcune delle quali vennero dipinte dai due maggiori rappresentanti del tardo manierismo romano i fratelli Taddeo e Federico Zuccari (stanza di Apollo e Aurora e stanza delle tre Parche) e venne costruita una graziosa cappella interna.
Ma dopo tale periodo i possessori che seguirono vissero prevalentemente in Spagna e il castello conobbe un lungo periodo di abbandono e di decadenza. Bisognerà aspettare la metà del secolo XIX per vedere il castello rifiorire al suo antico splendore ad opera del principe Duca di Uceda, Tirso Telles y Gyron.
Il palazzo, pulito all’interno e intonacato all’esterno, fu collegato con la parte bassa del paese tramite una scala interna intagliata nel tufo, fu completata la merlatura. A questo periodo probabilmente risale la sistemazione delle quattro tele, raffiguranti gli amori di Venere, poste nel soffitto della prima stanza a sinistra del salone al pianterreno. Tali dipinti, di notevole pregio artistico, sono opera del celebre pittore neoclassico milanese Andrea Appiani (1754-1817) che li realizzò nel 1784.
Nel 1889 il Castello viene acquistato da D.Elisabetta Frield, moglie del Principe Salvatore Brancaccio. I nuovi Principi lo ampliano e lo ammodernano dandogli la grandiosità che oggi presenta. Fu costruita la parte di levante congiungendola con quella antica di ponente mediante i due cavalcavia sulla strada principale del paese all’imbocco della Porta. Il campanile della cappella fu sostituito con la torre quadrata centrale odierna. Fu aggiunta a ponente una torre tonda in armonia con quella nuova di levante. Le numerose stanze vennero abbellite e impreziosite con decorazioni ed affreschi. La visita della regina Margherita a San Gregorio, avvenuta nel 1899 fu l’ambito premio per detti lavori.
La proprietà del Castello rimarrà ininterrottamente dei principi Brancaccio fino al 13 febbraio 1991, quando, con atto notarile n. 58348 del Notaio Paolo Farinaro, a firma del sindaco Dr. Luigi De Cinti, per la parte acquirente, e della Principessa Fernanda Ceccarelli ved. Brancaccio, per la parte cedente, il Castello, simbolo da sempre di San Gregorio da Sassola, diveniva, in modo definitivo, proprietà comunale.
Da tale data, grazie a contributi congiunti della Regione .Lazio e della Comunità Europea sono stati avviati e compiuti consistenti lavori di restauro e di ristrutturazione.
Attualmente la gestione del Castello, vincolata a finalità culturali, è affidata a privati.
La costruzione primitiva risale al secolo XV, anche se il suo nome appare sul catasto soltanto nel 1509.
Nel 1546 subì un primo ampliamento per opera di un certo Giovan Giacomo Doana come si legge sul portale.
Nel 1700 fu trasformata la facciata così come oggi la vediamo: un timpano sostenuto da due pilastrini con al centro l’antico portale.
Consistenti lavori di consolidamento e di restauro furono eseguiti nel periodo 1963-65. Attualmente la chiesa si presenta a navata unica con le pareti completamente ricoperte di affreschi. Addossata alla parete di fondo, dietro l’altare, un po” fuori centro vi è l’antica edicola che racchiude il dipinto della Madonna della Cavata, l’immagine della Madonna col Bambino, in atto di benedire San Gregorio Magno, inginocchiato sulla sinistra. Il volto della Madonna è la parte più antica del dipinto risalente con ogni probabilità alla fine del secolo XIII. Gli angeli, il busto della Madonna, il Bambino e San Gregorio Magno furono realizzati nel 500 sopra l’antica pittura, in alcuni punti ancora visibile.
La parete di fondo presenta le tre Natività festeggiate dalla Chiesa: la Natività di Cristo al centro; quella della Vergine Santissima, sulla sinistra di chi guarda, e quella di San Giovanni Battista sulla destra. Ai lati dell’edicola vi sono S. Antonio Abate e San Benedetto.
Sulla parete destra, guardando l’altare, è dipinto un ciclo completo della vita di Gesù. In due ordini di riquadri sovrapposti dal fondo all’ingresso, vi sono dipinte le seguenti scene: L’Annunciazione dell’Arcangelo a Maria SS.ma; La nascita di Gesù; L’Adorazione dei Magi; La Circoncisione di Gesù; La fuga in Egitto; Gesù fra i Dottori; Il Battesimo di Gesù; Uno dei miracoli di Gesù (probabilmente la risurrezione di Lazzaro); L’ingresso di Gesù in Gerusalemme, il giorno delle Palme.
Nel livello basso e ricominciando dal fondo: L’Ultima Cena; L’Orazione nell’orto di Getsemani; Il bacio di Giuda (la parte inferiore di questo dipinto fu distrutta per dare posto alla lapide in memoria del medico Gregorio RICCARDI e di sua moglie Giulia, postavi nel 1861); La Flagellazione di Gesù (non rimane che il capitello della colonna perché nel 1671 fu aperta la porta della sacrestia); La Crocifissione; La Pietà; La Risurrezione di Cristo.
Ai lati della porta della Chiesa vi sono due gigantesche figure di Cristo: il trionfo sulla morte e la sua discesa al Limbo per liberare i giusti, morti prima della sua venuta.
La parete di sinistra, sempre di chi guarda l’altare, è occupata interamente da due grandi composizioni, che rappresentano il definitivo trionfo di Gesù: l’Ascensione e il Giudizio Universale.
Quanto al Giudizio Universale è palese l’influenza di Michelangelo.
Non abbiamo nessuna indicazione precisa della data e degli autori di tali affreschi. E’ documentato che nel 1581 erano già stati compiuti. Probabilmente, come si può desumere dall’analisi delle singole figurazioni, essi sono opera di pittori di ascendenza artistica differenziata che lavorarono in tempi diversi.
La chiesa era mal ridotta alla fine del secolo XVI. Nei due secoli successivi, grazie a vari lavori di restauro e di ripristino, la chiesa dotata di alcuni quadri e della sacrestia e con l’altare maggiore rinnovato, assunse l’aspetto attuale.
Nell’ottocento la chiesa decadde nuovamente tanto che nel 1832, la Santa Sede decise di sopprimerla come parrocchia ed unirla, nella gestione, alla chiesa arcipretale di San Gregorio. E’ dello stesso anno il restauro operato a sue spese da Rosa Manni ved. Manni, come si legge sulla lapide posta sulla parete di destra.
Attualmente la chiesa, di dimensioni piuttosto piccole, presenta una facciata con copertura a capanna semplice. La porta d’accesso è sovrastata da una nicchia rettangolare che incorpora una finestra e un piccolo affresco raffigurante la Liberazione delle anime del Purgatorio, assai mal ridotto e quasi illeggibile.
L’interno, ad aula semplice, con un piccolo ambiente ad uso di sacrestia, è abbellito da affreschi e dipinti.
Sulla parete di fondo vi è l’altare maggiore. L’ancona, costituita da due colonne di stucco dipinto a finto marmo, su cui poggiano due capitelli corinzi dipinti in argento e sormontati da un timpano triangolare spezzato, risale con ogni probabilità intorno al 1696.
All’interno di esso un olio su tela ci rappresenta La Madonna delle Grazie. Il quadro, di autore ignoto dell’ottocento, riveste particolare importanza dal punto di vista devozionale.
Ad esso è legato l’avvenimento miracoloso del 22 luglio 1915. La Madonna mosse gli occhi e il fenomeno, constatato da molti fedeli, determinò un intenso fervore religioso con richiamo di pellegrini dai paesi limitrofi.
Sulla parete sinistra per chi entra, una tela inizialmente sull’altare maggiore e poi sistemata nel 1915 nella posizione attuale, è La Madonna con il Bambino che porge un fiore a San Biagio. Il dipinto, pur in assenza di documentazione, è attribuibile all’artista sangregoriano Tancredi MASCHIETTI (1680-1740) per la composizione d’assieme e le tipologie dei visi, tipiche di opere certe di questo autore.
Nella parete sovrastante la tribuna per l’organo è raffigurato Tobiolo e l’Arcangelo Raffaele. Il dipinto è ritenuto opera di autore ignoto di fine secolo XVIII.
Allo stesso periodo è attribuita la tela di autore ignoto raffigurante S. Vincenzo de’ Paoli sopra la tribuna dell’organo.
Nella sacrestia si possono ammirare due dipinti. Il primo, di autore ignoto della seconda metà del secolo XVII, è La Madonna del Rosario. Esso ci raffigura la Madonna assisa, con in braccio il bambino, che dà a San Domenico il rosario. La tela era posta inizialmente sull’altare dedicata alla Madonna del Rosario nella chiesa arcipretale di San Gregorio. Il secondo dipinto, del pittore siciliano Tommaso Maria Sciacca (1734-1795), è L’ascensione di Cristo fra gli Apostoli con Gesù, in veste bianca, che ascende al cielo, mentre gli Apostoli estasiati lo guardano.
Infine, sempre nella sacrestia, il Crocifisso in legno scolpito e dipinto, di tipo processionale, rientra stilisticamente nella produzione laziale del secolo XVIII.
Intorno al 1540 è probabilmente riconducibile il periodo in cui fu decorato l’interno della chiesa. Il restauro più recente, sovvenzionato dal sangregoriano Gioacchino Piervenanzi porta la data del 25 ottobre 1981, come risulta dalla lapide inserita nella parete destra. Prossimo alla chiesa vi era un ospedale, gestito dalla compagnia di San Giovanni Evangelista, per ospitare i poveri e gli infermi.
Con la fine dell’ospedale seguì, verso al fine del XIX secolo, anche il declino della chiesa che nel 1817 era servita, per poco tempo, come cimitero del paese.
Gli affreschi che decorano l’interno, costituito da una semplice sala rettangolare coperta da un tetto a capriate, sono di particolare interesse storico-artistico. Essi, sia nella composizione che nell’iconografia, partecipano alla tradizione stilistica sviluppatasi in area umbra-marchigiana, a partire dalla seconda metà del secolo XV, ad opera di artisti come Perugino, Pinturicchio, Piero della Francesca, Raffaello e sono riconducibili all’opera di due differenti grandi artisti di cui purtroppo non si conoscono i nomi.
L’abside, in particolare, è divisibile in due zone pittoriche. In quella superiore, che presenta elementi di continuità stilistica con la scena dell’Ascensione di Cristo dipinta nella chiesa della Madonna della Cavata, è ritratto al centro il “Cristo Risorto”, dentro una mandorla di teste d’angeli, fiancheggiata e sorretta da altri angeli volanti. Sotto la figura del Cristo vi è il sepolcro scoperchiato e, ai lati di questo, due soldati romani che dormono, mentre un centurione con la spada sguainata sveglia il soldato di destra prendendolo per il piede. Nella fascia inferiore, opera di mano diversa, campeggia il “Cristo Crocifisso”, con ai lati la Vergine e San Giovanni in piedi. Sotto la croce sono riprodotti in ginocchio sedici confratelli, vestiti col saccone bianco. Ai lati del Crocifisso, della Madonna e di San Giovanni sono dipinti San Gregorio Magno alla sinistra di chi guarda, e San Biagio alla destra. La pittura del santo patrono rassomiglia alla statua di legno che si conserva nella chiesa arcipretale.
Sullo sfondo della Crocifissione è dipinta ad anfiteatro e, idealizzata, la cresta dei monti che circondano il paese. Ai due lati di questo anfiteatro montano spiccano in avanti due paesi posti su due alture. Quello di destra potrebbe essere Sant’Angelo in Fajano, posto tra Poli e Casape, oggi denominato “Le Casacce”, mentre quello di sinistra potrebbe essere San Gregorio.
Nelle paraste che chiudono la descritta abside affrescata sono dipinti, da una parte, l’Angelo col giglio in mano in atto di annunziare un messaggio e dall’altra, la Vergine dinanzi ad un ampio genuflessorio.
Sulla parete sinistra della chiesa, in un riquadro dipinto a finto marmo, è inserita la figura di un Santo. Si tratta, come è chiaramente identificabile dalle manette, dell’immagine di San Leonardo Romito, un Santo monaco vissuto in Francia. Si può supporre che la devozione verso questo Santo sia stata introdotta nel nostro territorio attraverso il monastero di San Gregorio al Celio tra il VII e il X secolo.
La composizione equilibrata dell’insieme, la caratterizzazione del volto, dalle superfici ampie e distese, denotano una mano sapientemente educata identificabile con la stessa che ha compiuto gli affreschi dell’abside.
L’altare maggiore, già della chiesetta cinquecentesca ristrutturata tra il ‘600 e il ‘700, fu decorato di stucchi e dorature nel 1730 ad opera di Giovanni Antonio Stoppani.
Allo stesso artista e allo stesso periodo, per la natura degli stucchi e degli elementi decorativi, vengono attribuiti pure gli altari di S. Isidoro sulla parete destra della Madonna dell’Orto nella parete sinistra.Il campanile, con l’orologio e la campana, fu costruito nel 1772.
Distrutto da un fulmine nel 1880, venne restaurato nel 1907, con la sostituzione dell’orologio e della campana a spese del principe Brancaccio, che appose il suo stemma nel timpano della facciata.
E’ del 1992 l’ultimo restauro con cui sono stati rifatti gli intonaci interni ed esterni, la pavimentazione, gli impianti elettrici e le finestre.
L’interno della chiesa, ad aula semplice con soffitto a travatura in legno, è diviso in due zone da un grande arco trionfale. Nella prima, a cui si accede tramite il portale d’ingresso, si possono ammirare, sull’altare a sinistra due dipinti su tela. Il primo “La Madonna dell’orto tra Santi” ci raffigura la Vergine seduta su un trono con il Bambino in braccio; sulla destra, Sant’Antonio da Padova, in ginocchio; dietro di lui San Crispino con la lesina in mano e un terzo uomo; sulla sinistra è inginocchiato S. Antonio Abate con accanto un porco.
Il quadro, del 1732, è opera di Tancredi Maschietti (1680 – 1740), pittore sangregoriano a cui la critica è concorde nel riconoscere discreta cultura figurativa e tecnica disegnativa, in particolar modo nella tipologia dei volti.
Il secondo dipinto, “La Madonna Addolorata”, stilisticamente ascrivibile al secolo XVIII, è di autore ignoto.
Nell’altare di destra un dipinto del 1760 ci raffigura “S. Isidoro Agricola che compie il miracolo dell’acqua”.
Sotto un’ovale, sorretto da angioletti, raffigurante la Madonna con il bambino, si vede S. Isidoro che ringrazia il cielo per l’acqua zampillante dal terreno smosso dal pungolo che il Santo tiene in mano. Il quadro, di discreta fattura figurativa e disegnativa, é opera del pittore Paolo Ruffino, attivo a Roma intorno al 1760.
Dietro il dipinto, sulla nicchia dell’altare, è collocata la statua di S. Isidoro. Si tratta di una manifattura locale, in legno scolpito e dipinto del 1730 con cui il Santo è rappresentato in piedi, con un badile nella mano sinistra e il mantello nella mano destra.
Superando l’arco trionfale si accede alla zona del presbiterio.
Sull’Altare maggiore un dipinto, documentato al 1738, ci raffigura “La Madonna del Rosario”. In alto è rappresentata la Madonna seduta con il Bambino sul ginocchio destro; a Sinistra San Sebastiano e a destra San Rocco; in basso un cane e un angioletto che indica le piaghe di San Rocco.
Il dipinto è attribuito a un tal Giorgini. Probabilmente si tratta di Simone Giorgini, scultore attivo a Roma tra la fine del secolo XVII e gli inizi del XVIII secolo.
Ma in assenza di una documentazione certa, questa rimane soltanto un’ipotesi.
Dal presbiterio, due porte ai lati dell’altare maggiore introducono alla piccola sacrestia. Qui due tele di autori ignoti ci raffigurano “S.Giuseppe e il Bambino Gesù” e “San Filippo Neri” stilisticamente databili. il primo, a fine secolo XVII e inizio secolo XVIII e il secondo al secolo XVIII.
Documenti storici ci fissano al 18 febbraio 1537 la consacrazione della nuova chiesa a navata centrale unica, con “travatura di gusto gotico”. Alcuni anni dopo, e prima del 1567, viene scolpita la statua in legno del Santo Patrono che si venera oggi.
La sistemazione dell’attuale altare maggiore avviene sotto la signoria di D. Lotario Conti (1621). Egli fece costruire in muratura il presbiterio e l’altare maggiore; fece innalzare su di esso il monumentale tabernacolo che ancora adesso si ammira e vi fece collocare le due belle colonne di alabastro cotognino provenienti dalle cave dell’Acqua Ramenga.
Nel 1720 il pittore compaesano Tancredi Maschietti dipinge, per l’altare di S.Giovanni Evangelista, la bella tela del Santo nell’atto di scrivere l’apocalisse, mentre guarda ispirato la Madonna. La Stessa raffigurazione, riprodotta sullo stendardo per la processione, è opera di Giuseppe Sillani nel 1774.
Nello stesso arco di tempo fu definitivamente sistemato l’altare maggiore così come oggi lo vediamo. Fu rifatto il paliotto in marmo e fra le colonne di alabastro cotognino fu posta la tela, opera del pittore Giuseppe Bottani (1717-1784) che raffigura l’Assunta tra nubi e angeli con San Gregorio e Santa Silvia in basso (1744).
Fu rimessa a nuovo la statua cinquecentesca del Santo patrono e fu collocato sul timpano che sovrasta l’altare maggiore, il piccolo quadro della Madonna del Buon Consiglio, opera del pittore romano Mario Ricci.
Ma è nel 1867, come da iscrizione sul prospetto, cambiata poi nel 1967 per i restauri compiuti in quest’anno, che la chiesa sotto la spinta di un rinato fervore religioso, viene quasi rifatta a nuovo. Su progetto dell’arch. Mattei di Tivoli fu costruita la volta e alla navata centrale vennero aggiunte le due laterali. I sei altari della navata centrale furono ridotti a quattro e addossati alle pareti delle navate laterali. Il Duca di Uceda Tirson Tellez y Giron, principe di San Gregorio, finanziò la balaustra in legno apponendovi il suo stemma.
Nel 1869 il Comune regalò i quadri della Via Crucis, dipinti dalla spagnolo Alessandro Delosordens (1863).
Nel 1946 è il parroco Don Osirio Pucci ad avviare e portare a termine lavori significativi. Viene allargato il presbiterio, viene sostituita la balaustra lignea con quella in marmo e vengono rifatte le iscrizioni. L’ultimo restauro, in ordine di tempo ma non di importanza, è del 1998. Sotto la direzione dell’Arch. D.ssa Stefania Cancellieri con i finanziamenti della Regione, Beni Culturali, Provincia e Comune, unitamente alla riorganizzazione e rinnovo impianti, sono stati eseguiti lavori di consolidamento sul campanile e sull’intera struttura muraria e rifatto il pavimento.
Su iniziativa del Parroco Don Michele Carlot e con il contributo della popolazione, è stato compiuto il restauro della statua lignea di San Gregorio ad opera dell’artista Erminio Marinucci, ed è stato rinnovato l’intero arredamento della chiesa. Sono stati avviati al restauro preziosi candelieri argentei del 16° secolo, reliquiari e tele del 1700.
Nel terreno, dove oggi vediamo l’attuale edificio, esisteva, già alla fine del secolo XV, una primitiva chiesetta di Santa Maria Nuova. Questa era ubicata nel luogo dell’attuale cantina del Convento e fu abbandonata nel 1571 quando venne costruita una seconda chiesetta nell’area del presbiterio di quella attuale che è la terza ed ultima.
Ad abitarvi e svolgere attività religiosa furono inizialmente i Francescani Conventuali sostituiti, nel 1633, da una comunità di Riformati dello stesso Ordine. Questi, nel 1659, quando il Papa soppresse la loro Congregazione, abbandonarono il luogo e da questo momento il Comune provvedeva a nominare un cappellano, in attesa che vi tornassero i frati.
Nel 1671 P. Vincenzo Pileri, nativo di San Gregorio, chiese ed ottenne che gli Agostiniani Scalzi, a cui egli apparteneva, prendessero possesso della chiesa e del convento.
Nell’aprile dell’anno seguente fu spianata al suolo la vecchia costruzione ed eretto il complesso attuale a spese del Cardinale Carlo Pio di Savoia.
Nell’anno Santo 1675, come si legge nell’iscrizione sulla parete interna della Chiesa, e dall’altra sul frontale esterno della stessa, avvenne l’inaugurazione. La fretta con cui vennero eseguiti i lavori determinò la necessità, già nel 1688, di fortificare le fondamenta, ad opera del fratello converso Fra’ Abbondio Bianchi.
Nel 1870, con la presa di Roma, la Comunità di Santa Maria Nuova fu dispersa e i beni conventuali incamerati dallo Stato. Nel 1883, tuttavia, i religiosi rientrarono in possesso del complesso conventuale. Dopo il 1945 fu allargato il piazzale attiguo alla chiesa, fu costruito il viale di accesso e il convento venne provvisto di nuovi ambienti e in parte rifatto.
Il crollo della volta della chiesa, nel 1952, e di due ali interne conventuali nel 1959 costrinse i frati ad intervenire, negli anni successivi, in consistenti lavori di restauro e di rifacimento che ancora continuano.
LA CHIESA
La Chiesa, così come oggi la vediamo, presenta una facciata scandita da quattro lesene che la dividono in tre zone: una centrale con il portale bianco architravato, sormontato da una finestra rettangolare e da due laterali, con quattro nicchie sovrapposte due a due, decorate in alto da una conchiglia. Il timpano triangolare, con al centro un’apertura circolare, poggia su una base rettangolare.
L’iscrizione che si legge su di essa ci dice che la chiesa fu costruita a spese del cardinale Carlo Pio di Savoia ed inaugurata nel 1675. L’interno è costituito da un ambiente unico. Presenta tre altari, due sulle pareti e uno nella zona presbiteriale, ed è decorato da stucchi, dipinti e statue che hanno subito restauri nel 1978 a cura della Soprintendenza ai Beni Artistici di Roma e del Lazio.
La volta a botte, crollata nel 1952 e ricostruita negli anni successivi, fu dipinta nel 1978 dai fratelli Marinucci di Tivoli. Il dipinto al centro di essa raffigura “L’Immacolata Concezione” ed è opera dell’artista Filippo Luzi di Montecompatri (1665-1720). Il quadro venne commissionato da padre Ilarione Luzi al fratello Filippo tra il 1695 e il 1703, periodo in cui egli fu priore del Convento di Santa Maria Nuova.
La grandiosa e monumentale ancona dell’altare maggiore, composta da quattro colonne in stucco dipinto a finto marmo giallo venato, con capitelli corinzi, sempre in stucco bianco dorato, fu probabilmente realizzata tra la fine del secolo XVII e gli inizi del secolo XVIII. Allo stesso periodo sono riconducibili le quattro sculture, due in stucco bianco (S.Anna e S.Gioacchino) e due con anima di legno ricoperto in stucco (S.Agostino e S.Monica) poste in altrettante nicchie nel presbiterio, nella parete dietro l’altare maggiore. Le analogie tipologiche e formali delle figure in stucco che decorano l’ancona, di particolare finezza esecutiva, e le sculture, fanno supporre che esse siano opere di uno stesso ignoto artista della scuola di Camillo Rusconi.
La scultura in legno di ulivo intagliato, raffigurante “L’Immacolata Concezione” e posta nella nicchia dell’altare maggiore è opera attribuita a un religioso francescano. La sua realizzazione è collocata tra il 1633 e il 1641.
La corona d’argento che ne orna il capo venne donata il 24 maggio 1832 da Ludovico Roseo, sangregoriano, notaio dello Stato pontificio.
Le due tele, poste negli intradossi dell’ancona dell’altare maggiore, raffiguranti San Nicola di Bari e San Filippo, sono di autore ignoto e databili tra la fine del secolo XVII e gli inizi del secolo successivo.
E’ una documentazione fatta di resti di ville disseminate un po’ ovunque, di lapidi, di ruderi, spesso di controversa decifrazione, di cumuli, di selciati, di sepolcri, monete, urne e reperti che ancora oggi, di tanto in tanto, vengono alla luce in occasione di lavori di scasso o di sbancamento del terreno.
Ma i monumenti archeologici più importanti per imponenza e grandiosità sono senza dubbio i resti degli acquedotti imperiali. Questi, che attraversavano il territorio di San Gregorio da Sassola in Colle Faustiniano, servivano per portare l’acqua a Roma ed erano quattro: l’Aniene Vecchia (272-269 a.C.); l’Acqua Marcia (144-130 a.C.) l’Acqua Claudia (38-52 d.C.) e l’Aniene Nuova (38-52 d.C.). Essi non sono noti al grande pubblico, ed ancora oggi si può dire ciò che diceva Lotario Conti, Barone di San Gregorio, già nel 1632: ” Io non trovo menzione nessuna di questi acquedotti in nessun autore ne antico né moderno che li riponga tra quelli che andavano a Roma e pure sono di fabbrica tale, che non meritavano di essere trascurati, e forse non v’è né alcuno che li superi in magnificenza”.
E ancora tra gli storici, il Nibby: “Quindi fu all’uopo costruire nelle valli ponti magnifici o stupende arcuazioni, delle quali rimangono ancora avanzi, che tanto più sorprendono, quanto meno sono noti”.
Meraviglia sicuramente condivisibile se si pensa alla monumentalità e grandiosità dei ponti, ma non dovrebbe sorprendere la scarsa notorietà di essi se si considera la loro ubicazione.
Essi infatti si trovano in luoghi isolati, difficilmente raggiungibili ed è assente qualsiasi segnaletica che li indichi…
Tre sono i ponti che in particolare colpiscono l’attenzione: Ponte delle Mole, Ponte di San Pietro e Ponte Sant’Antonio.
“Ponte delle Mole o degli Arci”
E’ un ponte dell’acquedotto dell’Aniene Antica. Fu costruito dagli ingegneri di Adriano per superare il Fossato delle Mole, in un punto ben scelto, proprio prima che la Valle si allarghi in modo da escludere un’ansa di circa due chilometri. E’ costruita interamente in opera cementizia, rivestita originariamente in opus reticulatum, rinforzato con blocchi di tufo nei piloni e con opera laterizia nello specus. Presenta doppie arcate, la sua lunghezza è di 155,50 metri e l’altezza è di 24,50 metri.
I suoi 24 archi hanno luci in media di 4 metri. Il diciannovesimo e il ventesimo arco sono crollati nel 1965. Il decimo e l’undicesimo arco superiore, insieme agli altri che vanno dal dodicesimo al diciottesimo (tutti in fila) sono originali . Sulle altre parti si notano vari restauri di epoche diverse.
La pendenza graduale è del 7,66 per mille, quella ripida è del 163,5 per mille. Quest’ultima è la pendenza più ripida mai trovata negli antichi acquedotti. E’ motivata dal fatto che dopo la caduta, con una svolta quasi ad angolo retto, si entra in una lunga galleria.
“Ponte San Pietro”
Su di esso scorreva l’Acqua Marcia (144-130 a.C.) e fu costruito per superare il fosso di San Vittorino. L’acquedotto trae il nome da A. Marcio Re, pretore nel 144 a.C., la cui famiglia vantava di discendere da Anco Marzio quarto Re di Roma.
Il ponte in origine era costruito in blocchi di pietra locale, porosa e calcarea, con grande arco centrale, di luce non inferiore a 15 metri. I pilastri, larghi 3,84 metri alla base, si riducevano man mano a 2,77 metri e l’effetto doveva essere molto bello. C’era presumibilmente un arco più piccolo sulla sponda a nord-ovest e tre su quella a sud-est. La struttura, interamente ricoperta di cementizio tardo, subì lavori di rinforzo sotto Tito o Adriano e successivamente, forse sotto Diocleziano, fu ricostruita tutta l’estremità sud-est.
“Ponte di Sant’Antonio”
E’ uno dei più bei ponti degli acquedotti romani. Fu costruito per far superare all’Aniene Nuova (38-52 d.C.) il fosso dell’Acquaramenga.
In origine constava di un arco centrale alto 30 metri, sostenuto alle estremità da poderose opere di contenimento e legato a due serie di arcuazioni per una lunghezza di 120 metri. La struttura originaria era al tempo di Claudio in blocchi di tufo e rinfianchi in opus reticulatum. Successivamente, nel corso del IV e V secolo d.C., al tempo in cui sono consoli gli Anici Probi, vennero compiuti lavori di consolidamento con massicce opere cementizie e rivestimenti in laterizio, per mezzo di sottoarchi disposti in ordine sovrapposti. Tali interventi coprirono il manufatto originale e ridussero la luce delle arcuazioni.
Questo ponte, che trae il nome da una immagine di Sant’Antonio collocatavi forse nel secolo XVII, versa in uno stato di completo abbandono.
Esso è stato usato, e rimane ancora oggi, come passaggio pedonale da una riva all’altra del fosso.
L’interno è ad unica sala, quadrangolare, intonacato, con due affreschi sulla parete di fronte all’entrata e uno sul soffitto.
La chiesa, collocata sulla via alberata aperta dal Cardinale Santacroce per congiungere il paese con la villa di Gerocomio, fu edificata per devozione di un certo Ascanio(Sabatini).
Nell’ Anno Santo del 1600 fu collocata sulla parete di fondo un pittura su una tela raffigurante la Madonna che allatta il Bambino, di cui oggi non si hanno più notizie.
La chiesa cominciò a rovinarsi presto: negli anni 1653, 1662, 1688, risulta interdetta perché piena di umidità. Nella Visita del 1731è chiamata per la prima volta S. Lucia come ancora oggi la denomina il popolo.
Il tetto della chiesetta, che era ormai abbandonata e aperta agli animali, fu fatto ricostruire dal Comune nel 1981, nella seconda metà del suddetto anno anche la chiesa fu rimessa a nuovo a cura e a spese di Vittorio Maiorano.
(testo fornito dalla Pro-Loco di S.Gregorio da Sassola)/div>
Pagina aggiornata il 09/08/2023